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da
ttL LA STAMPA sabato 21 luglio 2001
IL CONTADINO GLOBALE: DALLE ALPI AL PERU', DALL'ALTO VOLTA
ALLA CINA
Come le popolazioni
rurali dei cinque continenti abbiano risolto in modo simile il problema
della sopravvivenza attraverso l'evoluzione degli attrezzi da lavoro.
Enrico Camanni
Questo
libro straordinario di Mariel Jean-Brunhes Delamarre, etnologa francese
figlia del geografo Jean Brunhes (tra i fondatori della "Geographie
humaine"), è innanzitutto la documentazione comparata del patrimonio
contadino del mondo, dalle Alpi al Perù all'Alto Volta alla Cina.
E' la risposta materiale alle domande della terra, ed è la dimostrazione
di come le popolazioni rurali dei cinque continenti abbiano risolto - in
modi sorprendentemente simili - il problema della sopravvivenza quotidiana
attraverso l'evoluzione degli attrezzi da lavoro. Dietro ogni oggetto ci
sono generazioni e generazioni di inventori e sperimentatori. Nei secoli,
fedeli a quel codice non scritto che noi chiamiamo superficialmente "tradizione",
hanno raggiunto il più alto grado di specializzazione della civiltà
agro-pastorale, che vuol dire massima efficenza con iol minor sforzo, ma
anche creatività, gusto, colore, bellezza. Sfogliando questo catalogo
di manufatti universali si potrebbe ipotizzare la globalizzazione dell'attrezzo
contadino, se non fosse che un oggetto non è mai uguale all'altro,
che ogni lavoratore è quasi sempre "creatore" e manipolatore
della propria dotazione, che per ogni variabile di clima, stagione, accidente
geologico o geografico esiste la risposta precisa, unica e irriproducibile.
Il contrario della globalizzazione.
Ma il libro di Mariel Delamarre, pur fuggendo da ogni tentazione nostalgica,
è anche la radiografia di una civiltà scomparsa o in rapido
dissolvimento. Sfogliando queste pagine riccamente illustrate e piacevolmente
commentate non si può non pensare che esiste un prima e un dopo,
che un intero mondo vissuto alla maniera contadina per circa diecimila anni
sarà presto trasformato - anche nei suoi recessi più insospettabili
- in una civiltà completamente diversa, senza possibilità
di ritorno. "I prodotti materiali tradizionali - conferma l'antropologo
Francesco Fedele nell'introduzione - perdono di significato con grande rapidità.
Un intero mondo non solo reale ma strumentale sta scomparendo in Europa
e altrove sotto i nostri occhi nell'arco da nonno a nipote, con caratteristiche
e drammatica irreversibilità".
Fedele però non si ferma lì e si chiede se esista un futuro
per la tradizione: "Prendere coscienza di un'eredità tradizionale
spesso vuol già dire averla perduta. Eppure, con l'aiuto degli antropologi,
e di etnologi come l'autrice, il fenomeno tradizione può essere ricollocato
in prospettiva, proiettandolo sullo sfondo di due milioni di anni di storia
umana totale". Rileggere in prospettiva è l'unico antidoto per
combattere certe pericolose deviazioni come il tradizionalismo, "quel
fascio di atteggiamenti che spaziano dalla nostalgia per un mondo che dilegua
al ripudio acritico delle crisi innovative determinate dal mondo che cambia",
o come il particolarismo delle culture locali, là dove" le qualità
facili e semplicistiche del "campanile" sembrano offrire un confortevole
rifugio nel quale staniarsi dai problemi collettivi e complessi dalla grande
comunità in cui si è inseriti". Tradizionalismo e spirito
di campanile hanno portato, da vicino, alle deviazioni nostalgiche e autoritarie
di Jorg Haider che dietro all'attaccamento della tradizione nasconde sentimenti
assai meno nobili come il rifiuto del diverso e la difesa dei privilegi
regionalisti e nazionalisti. La questione è molto più delicata
ed attuale di quanto possa sembrare. E' un problema tipico dei momenti di
passaggio, momenti in cui gli adoratori dell'antico e i feticisti del moderno,
sradicati da una visione storica, rischiano di imboccare strade senza uscita.
Come scrive ancora Fedele, quando il pendolo oscilla dall'amore del nuovo
per il nuovo (basti pensare all'adorazione emotiva e irrazionale per i telefoni
cellularui simboli di un mondo cablato e omologato) alla difesa incondizionata
del vecchio, "bisogna imparare a guardarsi dall'uno e dall'altro estremismo.
Nè la nostalgia oscura per un ciarpame atavico e suggestivo, nè
il dispregio qualunquistico che ne autorizza l'eliminazione, nè l'indifferenza,
sono posizioni legittime".
E infine: "Distinguere nella tradizione ciò che può essere
fiduciosamente filtrato e consegnato al futuro, senza pretesa di trasfusione
globale, nell'esplorazione stessa del futuro verso cui ci si muove è
fra i compiti principali e più delicati della prassi antropologica
di questo secolo che comincia".
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