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LA STAMPA sabato 23 agosto 2003
ASPETTANDO BARBABLU' NEL TEMPIO LIBERTY
Ipnosi,
spiritismo, abbuffate fra il proustiano Grand-Hotel di Cabourg e una infernale
Torino
Bruno Quaranta
Un romanzo-enciclopedia. Un'enciclopedia in forma di romanzo. Elisabetta
Chicco, dopo i magnetici racconti d'esordio e dintorni ("Le ali di
Mercurio" e "L'avventura di una suora"), offre una prova
smisurata. Ossia oltremodo lunga - circa quattrocento pagine, ma il lettore
non fugga, ancorchè, sappia, ad attenderlo non è un feuilleton
. E ambiziosissima: sorretta (germinata, la "Germinazione" di
Odilon Redon) dall'urgenza di tutto abbracciare, rappresentare, ritrerre,
nominare...
Odori, sapori, moda e modi, architetture, spartiti... Una devozione all'esattezza,
più che alla leggerezza, tra le virtù raccomandate da Calvino.
Sulla fratina, in veste di specchi, i Flaubert, i Proust, gli Huysmans...
L'epoca qui restaurata minuziosamente (addirittura maniacalmente, dispoticamente)
ha le stimmate del Liberty. Di respiro floreale in respiro floreale, dal
Grand-Hotel di Cabourg-Balbec (La quarantaduesima carta esordisce
in Normandia, fra le fanciulle in fiore) a Torino (torinese è Elisabetta
Chicco), il labirinto che la città della Mole è: "Chi
racchiudeva il mitico labirinto, se non l'uomo-toro, un Taurino, un Torinese?".
Potrebbe incuriosire un regista come Peter Greenway (e il fantasma di Billy
Wilder, alias "Viale del tramonto", e un eco di Bunuel), questo
inventario del mondo di ieri, gotico, necrofilo, cannibalesco, bulimoco.
Di sicuro avrebbe affascinato un sulfureo signore - torinese d'adozione
- quale Italo Cremona, che al "Tempo dell'Art Nouveau" dedicò
una "passeggiata" sempre limpida e alla dissipatio humani generis
un conte philosophique egregio, "La coda della cometa".
Siamo poco dopo il 1911, l'anno dell'Esposizione lungo il Po. Il dottor
Edmondo Barbi, seppellite due mogli (tra "cadaveri e ricordi"
oscilla), in vacanza a Cabourg assiste non a caso a uno spettacolo di illusionismo.
Allievo di Cesare Lombroso. laico ma non materialista, è convinto
che la scienza moderna debba scrollarsi di dosso le pastoie positivistiche,
aprendosi al meraviglioso, all'incredibile. E dunque: su il sipario. L'attrazione
serale è Erina, giovane sensitiva. Il padre, già attore del
Grand Guignol, assicura gli astanti la virgo, una volta caduta in trance,
"realizzerà il contatto con l'ignoto". Ciarlatano lui,
non v'è dubbio. Ma la medium? Una sorta di vocazione forse l'accende,
la eleva? Il chirurgo e necroscopo (e ipnotista) non esiterà a chiederna
la mano: "Avrebbe potuto studiarsela giorno e notte, condurre esperimenti
in condizioni di controllo, affinare su di lei le sue doti...". No,
nessun'altra ragione lo sospinge a sposarla: le passioni di studioso e di
sportivo (l'automobile e l'aereo) lo assorbono completamente, la vis sexualis,
che pure c'è, tale deve restare, bnon generare la dipendenza dalla
donna, basterà la settimanale visita a un'appareilleuse ad acquetare
la natura...
A Torino, maturando le nozze, Erina è iniziata alla dimora Barbi,
un castelletto neogotico-jugendstil sul limitare del Valentino. Intorno
alla diafana figura danzano le ombre delle defunte spose, si indaga sulla
morte fotografando le agonie, orbitano presenze mostruose ("La mostruosità
vera antitesi della bellezza, altrettanto prodigiosa. La bruttezza ci offende,
la mostruosità ci turba, come la bellezza"), lievita la favola
di Barbablù, incombe un catartico destino infernale, in veste di
demiurgi un maggiordomo-ceroplasta, eco del secentesco Zummo, e una nana.
E' nelle viscere del palazzotto, varcata la porticina ornata della sentenza
Neque sol per diem, neque luna per noctem (non sole nel dì,
non luna nella notte), sul battente la quarantaduesima carta, immagine della
conoscenza e dell'errore nella tradizione esoterica, che si annidano il
pericolo e la salvezza (perché ogni salvezza che non provenga da
dove ha luogo il pericolo è ancora sventura).
DSal sottosuolo ai piani alti, luminosi, per mano a un'ibrida, ripugnante
creatura... La Grazia evangelicamente imprevedibile...Con ilarità
("l'ilarità delle tenebre" di un'ulteriore sua frequentazione,
Victor Hugo), Elisabetta Chicco assiste, ricreandola, alla necrosi di un
microcosmo, di un lacerto borghese. Ossessionato dai riti, incartapecorito,
inesorabilmente isolato dalla città che sale (fabbriche, cinema,
botteghe), le tensioni verso la modernità isterilite dalla verbosità
e dall'inclinazione irredimibile al beau geste. Di convulsione in convulsione,
di rantolo in rantolo. Sino ad annunciare: "Tout est mort" (a
proposito di Art Nouveau, "Tout est mort" è un dipinto
allegorico di Léon Frédéric).
E' l'orgoglioso proclama di chi - come la floreale signora - non ha dubbi:
"Barbablù c'est moi".
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