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Cultura
& Spettacoli di martedì
31 maggio 1994
IL MESTIERE DI INSEGNARE SECONDO AUGUSTO MONTI
Le sue opere erano introvabili. Ora tornano
in libreria gli scritti scolastici di un Maestro di democrazia dimenticato.
Pier Franco Quaglieni
Le opere di Augusto Monti erano di fatto introvabili. L'editore Einaudi
non le ristampava più da molti anni. E' merito indiscusso di un piccolo
editore di Cuneo, l'Araba Fenice, aver predisposto la pubblicazione dell'opera
omnia di un autore considerato controcorrente. Lo scorso anno venne pubblicata
la narrativa di Monti insieme ad un libretto, Realtà del partito
d'azione, uscito nel 1945 e mai più ripubblicato. Da pochi giorni
è in libreria la raccolta degli scritti scolastici di Monti (Scuola
classica e vita moderna e I miei conti con la scuola) curata
con un nuovo titolo, Il mestiere di insegnare, da Remo Fornaca e
Aldo Mola.
Se introvabili erano i libri, in realtà - a neppure trent'anni dalla
sua morte - Augusto Monti sembra essere diventato un carneade o quasi. Uno
studente universitario, recentemente, lo ha confuso con Vincenzo Monti.
Ma, al di là dell'episodio curioso, resta il fatto che su di lui
è caduto l'oblio. Eppure Monti è stato uno dei mostri sacri
dell'antifascismo non solo subalpino. Maestro di Pavese, Bobbio, Mila, Giulio
Einaudi e di tantissimi altri giovani destinati a trovare nell'impegno antifascista
la loro strada, egli insegnò nel più prestigioso liceo classico
torinese, il "d'Azeglio", lasciando un ricordo che sembrava indelebile.
Nella recente presentazione del Mestiere di insegnare nell'aula magna
del liceo a lui dedicata non c'era neppure uno studente. La cosa ha provocato
scandalo, ma, se si rileggono attentamente i suoi scritti, ci si accorge
che - andando oltre le sue scelte di sinistra - Monti sostenne posizioni
difficilmente conciliabili con la scuola nata nel '68.
Convinto riformatore, egli sostenne la necessità di studi severi,
di una durissima selezione del corpo docente, di un impegno scolastico che
non lasciava spazio al permissivismo facilistico che ha imperversato nella
scuola italiana senza contribuire in nessun modo a rinnovarla.
Due anni dopo la sua morte, nel '68 la scuola fu colpita dal virus di una
contestazione caotica e confusa, dogmatica e intollerante nelle sue incertezze
ideologiche.
Il profeta casareccio dei contestatori fu don Milani che con il suo ineffabile
libello Lettera ad una professoressa, in modo generico e fazioso,
mise sotto processo la scuola italiana e i suoi docenti. Altro in sintonia
con i "moti" del '68 fu Descolarizzare la società
di quell'Ivan Illich che proponeva utopiche alternative alla scuola vista
come una struttura soffocante e, naturalmente, autoritaria.
Invano nel 1975, Vittoria Ronchey in Figlioli miei, marxisti immaginari,
denunciò "la repressività dell'antirepressività",
la retorica pseudo-rivoluzionaria e la demagogia velleitaria che inquinava
la scuola italiana.
Di fronte alla crisi della scuola nessuno si mosse: né i ministri,
né i provveditori, né i presidi. Per anni la scuola fu lasciata
andare alla deriva. Almeno due generazioni di giovani furono sacrificate
sull'altare della sottocultura. I titoli di studio venivano dati con voto
politico, la scuola si trasformò in un assurdo "diplomificio"
a buon mercato con un esame di Stato ridicolo, "sperimentale"
da ...venticinque anni.
E' evidente che in questo quadro desolante che ha mortificato per molti
anni la cultura e la scuola, non ci potesse essere posto per un uomo di
sinistra che credeva in una scuola di Stato seria e rinnovata, senza rinnagare
i valori della cultura classica, considerati un elemento formativo di fondamentale
importanza. Mentre lo studio del latino era considerato un utile rompicapo,
la testimonianza di Monti diventava piuttosto fastidiosa e imbarazzante
al pari di quella di Concetto Marchesi, l'unico marxista che difese la scuola
umanistica. Così l'editore Einaudi non ripubblicò più
le opere montiane e il maestro di democrazia e di antifascismo venne messo
in soffitta.
Tra il resto, su di lui avevamo esercitato il loro magistero uomini come
Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi, anch'essi ovviamente da riporre nello
scaffale più alto della biblioteca, se non addirittura da destinare
al rogo.
Ad esempio, Monti ebbe il coraggio di far sua la proposta einaudiana volta
a togliere il valore legale ai titoli di studio (unico modo per non confondere
il diritto allo studio con quello, assurdo, al titolo di studio); dopo il
'68 si pensò invece solo a distribuire pezzi di carta inflazionati,
ottenuti con il minimo sforzo, ignorando che il fine della scuola è
quello di formare culturalmente i propri allievi.
In una temperie politico-culturale profondamente mutata Monti ricompare
nelle librerie.
C'è da sperare che, com'è accaduto, non continui ad essere
confuso con il traduttore dell'Iliade.
In una scatola che ha immesso nei ruoli ope legis centinaia di migliaia
di professori senza nessuna verifica preliminare, non ci sarebbe affatto
da stupirsi. Il '68 ha portato al potere, più che l'immaginazione,
l'ignoranza e l'irrazionalismo più beceri, cammuffati da progressismo:
in una parola, il berretto a sonagli invece di quello frigio.
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