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CORRIERE DELLA SERA lunedì 15 gennaio 2000
ELOGIO DELL'ARGUZIA
Ovvero come far lezione sull'intelligenza divertendo
Ermanno Paccagnini
Esce
un'elegante edizione anastatica del "Cannocchiale aristotelico".
Il testo scritto da Emanuele Tesauro, letterato del XVII secolo presenta
più di uno spunto di riflessione attuale Elogio dell'arguzia. Ovvero
come far lezione sull'intelligenza divertendo Chi ha mai detto che gli orscopi
non servono. Talvolta possono persino essere un segno o forse addirittura
uno strumento della Provvidenza. E nel caso di Emanuele Tesauro (1592-1675)
lo sono certamente stati, dato che poi, come gesuita - a sentire i pettegolezzi
interni della Compagnia - non era proprio un religioso esemplare: amando
portare "barba lunga e zazzara", starsene "tutta la mattina
a letto", frequentare la chiesa il meno possibile, senza infine tralasciare
la partecipazione a "certi balletti" a corte durante il carnevale.
Sia chiaro: non lo si discuteva di sicuro come predicatore, e lo stesso
Borromeo lo volle a predicare in Duomo, a Milano, durante la peste del 1630;
ma gli era difficile, insomma, dimenticare di essere rampollo di famiglia
nobile e ben gradita alla corte sabauda. Nè lo aiutava il carattere
esuberante, facile a violenti diverbi. Anche coi confratelli. Ed è
qui che entrano in gioco Provvidenza ed oroscopi. Che egli stila per il
neonato principe di Savoia Francesco Giacinto assegnandogli l'ascendente
astrologico della Vergine: lo stesso dell'imperatore Augusto. In disaccordo
con Pietro Monod, gesuita e uomo di corte pure lui, ma sostenitore del segno
del Capricorno. Risultato: un bel pamphlet intitolato Vergine trionfante
e Capricorno scornato che già nel titolo gioca con l'amato strumento
retorico dell'Arguzia; quindi l'uscita dai Gesuiti per ridivenir "Conte
e Cavalier Gran Croce" (dei SS. Maurizio e Lazzaro), nonchè
"Patrizio Torinese". Questo almeno si legge sulla copertina di
questa elegantissima anastatica dell'edizione Bartolomeo Zavatta 1670 del
capolavoro suo e del concettismo barocco: il Cannocchiale aristotelico ossia
Idea dell'arguta et ingeniosa elocution e che serve a tutta l'Arte oratoria,
lapidaria, et simbolica esaminata co' Principij del divino Aristotele, voluta
dal benemerito Comune di Fossano e coordinata da Giovanni Menardi e riprodotta
dall'Editrice Artistica Piemontese, con vari ricchi saggi introduttivi.
Ove sprizza curiosità sin anche il titolo, col suo richiamo a un
oggetto di recente invenzione ma ricalibrato su Aristotele anzichè
su Galileo: e col Tesauro che subito lo metaforizza, mentre in quanto strumento
preferisce (forse) paradossalmente scherzare, suggerendo che da lui "puoi
conoscere quanto sia del mondo invecchiato, poichè gli abbisognano
occhialoni di così lunga veduta". Del resto, che col Cannocchiale
Tesauro si sia divertito lo suggerisce ogni riga; e giustamente s'è
parlato di "elocuzione non solo arguta, ma ludica", anche quando
della retorica si sottolineano le componenti didrammaticità,
legate all'impiego (moralmente, più che stilisticamente) erroneo
dei suoi strumenti.
Un libro giocato anche tipograficamente, tra tante maiuscole tonde e corsive,
rientranze, chiose in margine, disegni, stemmi e una varietà di invenzioni
conseguenti alla modernissima idea che i testi, la poesia, il canto sono
non solo da sentire ma pure da vedere (e cita un testo del Bettini, a metà
tra Pascoli, Palazzeschi e Marinetti: <<Tiùu, tiùu,
tiùu, tiùu, tiùu; / Zpè tiù zquà;
/ Quorrror pipì / Tìo, tìo, tìo, tìo,
tix / Zpè tìu zquà; / Tìo, tìo, tìo,
tìo, tix>> e così via). Un'opera di celebrazione: del
potere meraviglioso, addirittura divino dell'Argutezza (anche Dio se ne
avval "motteggiando agli uomini e agli angeli, con vari motti e simboli
figurati, gli altissimi suoi concetti"). "Gran Madre d'ogni 'ngegnoso
Concetto: chiarissimo lume dell'Oratoria, e Poetica Elocutine: spirito vita
della morte Pagine: piacevolissimo condimento della Civil conversatione:
ultimo sforzo dell'Intelletto: vestigio della Divinità nell'Animo
Humano". Di qui il suo costituirsi quale strumento ( e pure quale sorta
di codice mondano) per i pochi "più felici e acuti ingegni"
così come per una classe di eletti che grazie ad essa possono aggirare
la nausea del quotidiano; e quanto mai inadatta alla "ottusa e temeraria
turba. E proprio in quanto "codice" il libro si snoda per successione
di analisi ed esemplificazioni di vario tipo di acutezze e non solo della
ricchissima serie di "acutezze vocali" quali la "metafora
di una parola" (sicchè: "in un vocabulo solo un pien teatro
di meraviglie"); "anagrammi letterali o numerici"; "allitterazioni
serie e ridicole"; antitesi; "argutie degli animali", ma
pure le geniali e angeliche", o quelle di figure e di parole e di cenni;
motti di guerra; proverbi; Imprese; emblemi; reticenze; allegorie; apologhi;
indovinelli; iscrizioni e tantissimo altro ancora compreso il "furore
dei matti: i quali meglio che i sani (chi lo crederebbe?) sono conditionati
a fabricar nella lor fantasia metafore facete, e simboli arguti: anzi la
Pazzia altro non è che Metafora, la qual prende una cosa per l'altra.
Senza dimenticare poi quella precisa anticipazione semiotica che legge anche
comportamenti, gesti, atteggiamenti e insomma l'intero corpo quale ricco
testo non verbale a sua volta soggetto al regno dell'argutezza. Aspetti
sui quali nutriva peraltro qualche dubbio il Pirandello dell'Umorismo, che
ricordava l'opera ("oh, il Cannocchiale aristotelico di Emmanuele Tesauro!"),
tra le "fatiche speciosissime che si fecero nel secolo XVII per definir
l'ingenio". E riletto invece oggi nel suo stimolo a una piena consapevolezza
delle scelte stilistiche e linguistiche. Quella che purtroppo - la consapevolezza;
ma pure le (in)conseguenti scelte - oggi tanto spesso assenti dalle correnti
scritture.
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