HANNO IMPICCATO TITTI |
Federico Salimbene ha trentasei anni, un romanzo da scrivere, una donna che non vuole amare, un datore di lavoro che detesta. Costretto in un presente che non può liberarsi del passato, si mette alla ricerca di sé attraverso la scrittura, che è sì espressione letteraria, ma che sembra, anche, l'unica possibile via di riscatto. Alla labilità dell'ispirazione, alla propria incapacità di trovare in sé i motivi e i temi dello scrivere, e quindi del vivere, il protagonista reagisce, fino ad una conclusione sorprendente e originale, facendo ritorno alla fonte prima della propria spinta artistica ed esistenziale: la vita realmente vissuta. Finalmente a casa, al sicuro. Finalmente al monitor del computer già acceso, finalmente. La giornata era stata una battaglia, ma una battaglia stravinta. Una sfiancante tenzone con e contro quel pensiero prima accolto, protetto e coccolato, poi spaventevole e respinto, intollerabile, ripudiato. Prima sacro e indiscutibile poi abiurato e rinnegato. Perduto, cercato, inseguito e riacciuffato dopo ardito inseguimento. Fino a sfibrarsi, fino a sfinirsi. La sera prima il sonno lo aveva colto pieno di coraggio e straordinariamente volitivo, e la mattina, come per incanto, il coraggio era ancora lì trionfante, col piede sulla notte nella polvere e lo scudo luccicante e la lancia puntuta alta contro il cielo. Puro, intatto, per nulla svilito o appannato dalla luce della realtà, dal chiarore di quel giorno che si annunciava decisivo, anzi pronto per l'ultima prova che già si prospettava minacciosa. C'era il lavoro di mezzo, l'altra sponda da guadagnare, otto ore da guadare attenti a non bagnare le polveri e a non smarrire gli intenti. Era il caso di chiedere un permesso? Ma no, era un'audacia paziente la sua, smaniosa tanto quanto oculata e durevole. A casa ci sarebbe tornato alle cinque, come sempre. Quello era il giorno, e il suo primo, grande romanzo, andava senz'altro a incominciare, finalmente. Poi era successo che il destino, sempre beffardo come regola vuole ed esige, si era incaponito nel mettersi di traverso. In verità i suoi, erano segnali contraddittori. Se è vero infatti che il traffico era scarso, e i rari semafori sopravvissuti alla rivoluzione delle rotonde tutti ostinatamente verdi, è altrettanto vero, se non di più, che il polpaccio destro aveva stranamente iniziato a dolergli, come per un crampo, al punto che più di tanto il piede non poteva contro l'ostile resistenza dell'acceleratore. La spesa al supermercato poi, si era rivelata all'improvviso come un'urgenza ineludibile, al di là di qualsiasi parere, peraltro sempre autorevolissimo, il frigorifero o la dispensa potessero esprimere. A rincarare la dose ci si era messa anche quella lancetta, a questo punto debitamente maledetta, che dal cm-scotto indicava perentoria quasi, quasi riserva. La sosta dal benzinaio diventava giocoforza imprescindibile. [..] |
Tutto era mutato, e Asti anche si era adeguata al cambiamento. Fin qui nulla da dire. Ma perché il tempo e gli uomini, i privati come gli amministratori pubblici di ogni livello, sembravano accanirsi specialmente contro le tracce della sua esistenza, contro i fili della sua memoria? Perché immancabilmente finivano con l'abbattersi contro i suoi posti delle fragole, perché infuriavano sempre contro i suoi tempi delle mele? Dall'inizio. La maternità, dove Federico era nato, non era più la maternità. Rimaneva una grossa scatola di mattoni a vista, vuota, cannibalizzata. Solo la scritta bianca ancora campeggiava ostinata nel silenzio generale. Fondazione Antonietta Pittarelli Badoglio. Più nessun vagito d'esordio, e chi l'aveva zittita? L'ospedale nuovo ovviamente, il Cardinal Massaia, che non pago si era pure arrogato il diritto di asfaltare il campo da calcio del Don Bosco. Lo scrigno prezioso delle sue più forti emozioni fanciullesche era stato sventrato e ricoperto. Più nessun numero sette coi capelli da indiano avrebbe coperto la fascia. C'era una Punto ora, e una Smart tra una Panda e una Focus. Impresa disperata anche per il Bruno Conti dei bei tempi. Bel guadagno quel parcheggio, un altro regno consacrato alle macchine tra i tanti di un impero dispotico in perenne e famelica espansione. E così anche la gloriosa Colli di Felizzano, dopo strenua ed eroica resistenza, era caduta. Che cosa, se non un parcheggio tra le rovine, poteva diventare la sua piazza d'armi? Altro luogo sacro altro giro, altra profanazione. Suo zio Augusto, il capitano, ce lo portava la domenica mattina dopo la funzione, con l'ostia incaponitasi in gola che non andava né su e né giù. Con la bella stagione si poteva giocare a tennis, glielo aveva insegnato lui. D'inverno invece si contavano i punti al pallottoliere della sala biliardo. In piedi sullo sgabello che altrimenti non ci arrivava. Messa. Bevuta. Filotto. Parole arcane che risuonavano corpose di fascino tra secchi schiocchi di sfere lattee, entità metafisiche perfette che bucavano le volute di fumo rivelandosi dure e lucenti dallo sportellino delle buche. E alla fine, se vittoria era stata, bombolone al circolo o gelato in mensa truppa, che la domenica non poteva mancare. E di biliardo in biliardo, del Biliardo di piazza della Libertà, tappa istituzionale della domenica pomeriggio, chi se ne ricordava? Mille lire dieci partite. Davanti sala giochi, dietro sala per appassionati della stecca. Più nulla, ora c'era la sede centrale della Cassa di Risparmio di Asti. Tutt'altro affare. Anche le chiese avevano tradito. Certo erano sempre quelle, d'accordo, ma private degli attributi che le caratterizzavano. Come se Eracle si fosse perso per strada la pelle del leone nemeo. Cos'era ora il campetto sassoso dietro la Cattedrale? Un cantiere enigmatico e infinito. E il cinema di San Pietro dove Trinità tirava schiaffi e si abboffava di fagioli? Una desolatissima sala rinfreschi, all'occorrenza. E gli spogliatoi umidi e cavernosi di San Domenico? Su questo punto certo Federico non poteva sbilanciarsi, ma in cuor suo temeva il peggio. "Svegliaaa! Sono le cinque! ", tuonava il presidente-allenatore nell'intervallo, poi si ricomponeva. "Ecco qua, prendete, mezzo cicles a testa. Succhiatelo un po' poi passatelo al compagno. E mi raccomando, avanti! ". "Ma mister, vinciamo uno a zero! ". No, non linoleum o piastrelle bianche per la catechesi, ma camionate di terra a ricoprire tutto. "Avanti ho detto. Avanti! " Fino a soffocare l'eco stentorea che altrimenti gli anni no, solo gli anni non ce l'avrebbero fatta a spegnerla. E il re spada pesce in piazza Catena brulicante di contadini, verdure e casalinghe? Neanche la lisca era rimasta, tra le quattro intristite bancarelle superstiti. E che dire dell'Arena in corso Alfieri? Benevolo tempio dei primi baci alla vodka che alle ventidue e trenta già si concedeva al mondo? E dell'Asti in CI con lo stadio gremito? E i fuochi nel medesimo? Al Tanaro, che pareva fossero più spettacolari. Ma non per Federico. E il Palio nell 'omonima piazza? Sfrattato, ora si correva sotto gli occhi del Poeta in una cornice scenografica più suggestiva. Ma non per Federico. E la fiera e le giostre di san Secondo dove si corteggiava rudemente tamponando e speronando? In periferia. Non più piazza del Palio, troppo centrale, troppo disagio per la città. Ma non per Federico. E le Sagre in piazza Alfieri? Tranquille, dove senza troppe attese si potevano gustare i tagliolini ai funghi scambiando quattro chiacchiere, udite udite, seduti? In Piazza del Palio. Ma non si era detta più suggestiva la prima? Sì, ma qui la suggestività contava poco, importavano gli incassi di un affare che aveva assunto dimensioni di portata regionale. E il disagio? Le salsicce!! A Federico, comunque, nessuno aveva chiesto nulla. Tutto era mutato, il mondo intero si era rovesciato. Gran capriola, da applausi. Il mondo intero, Asti, Frida, le facce delle persone, le cose e il colore delle cose, l'odore dell'aria, il proprio volto allo specchio e lo specchio stesso. Niente si era salvato. Tornava a casa tardi Federico, e i gradini li saggiava lentamente, ad uno ad uno. Poi apriva la porta e si infilava nel letto. E San Luciano ora baciava il muro. Aveva bisogno solo di conforto, e la saggezza di Sancho era quanto bastava. Spegneva la luce e chiudeva gli occhi Federico, e benedetto chi inventò il sonno, cappa che ricopre tutti gli umani pensieri... |
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