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Torinosette - 7 novembre 2002
ELVA, UN PAESE OCCITANO
Michele Pellegrino
Ci sono
libri che non si possono sfogliare e basta. Ci sono libri che come la poesia vanno letti e riletti, guardati e riguardati. Uno di questi l'ho sotto gli occhi: è bellissimo. S'intitola «Elva, un paese occitano»
foto di Michele Pellegrino, testi di Diego Anghilante, editore «Blu Edizioni» di Peveragno (v. Vittorio Veneto 82, tel. 0171/383376). Indirizzo e telefono perchè vorrei che tutti l'acquistassero, si mettessero da qualche parte, in silenzio, e cominciassero semplicemente a guardare. Guardare un libro come questo non è sostituire lo sguardo naturale cui i luoghi continuano a offrirsi, ma è guardare gli occhi altrui attraverso i proprii, o magari il contrario. Anghilante scrive cose persuasive e fa riferimenti molto opportuni alla vita, alla storia, alla memoria di Elva, ma anche ai maestri (Strand, Adams, Weston, White...) cui l'occhio di un maestro come Pellegrino ha saputo guardare. Anghilante accompagna i testi con umili e spoglie parole altrui dette in occitano, la lingua indigena e nativa. Ma sono le immagini di Pellegrino a costituire il più suggestivo invito a un lentissimo viaggio di adagi ottici e mentali: a distillare la più pura emozione di un invito metafisico. E tutto questo fa senza cedere in nulla all'estetismo falsamente sentimentale cui la materia pur potrebbe prestarsi. No, i suoi numi sono la nudità, la concretezza, la severità, il nitore, un bianco e nero per cui Anghilante usa l'idea di classicità , realismo spietato e scabra gettata.
Elva è un comune composto di venticinque borgate, incuneato in un vallone della Val Maira che si protende verso la confinante Val Varaita (il suo gioiello artistico è la Parrocchiale romano-gotica di Santa Maria che conserva un grandioso ciclo di affreschi del fiammingo Hans Clemer), ma gli imperdonabili sguardi di Pellegrino ne fanno un luogo dei luoghi, il paesaggio di un altrove d'anima. E tutto questo senza toglier nulla al passaggio del tempo, alle tracce della modernità, alla presenza del divenire umano.
È il dramma cupo dell'ombra e della notte che dicono il tormento delle rocce. Sono più spesso la specularità d'un riflesso, la straniante presenza d'un oggetto, la luminosa prospettiva d'una veduta, la cifra segreta d' un ritratto, la nuda essenzialità di un interno, il particolare scolpito di un infisso, la grazia rustica d'un affresco o d'un pilone votivo, il destino d'una strada, l'incanto celtico d'una pietra, i travagli di una balma e d'una nuvola. A dettare tempi e misure dell'emozione è sempre il ritmo del gioco di luce.
In questo libro da sgranare come un libro d'ore, un paese antropologicamente incardinato nella sua storia diventa - grazie al clic di Pellegrino - un vertiginoso sito dell'assoluto.
GIOVANNI TESIO
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