Ho cercato di rievocare in queste pagine il periodo di storia che va dal 1910 al 1942, così come mi è stato raccontato da mio padre e, in parte ho vissuto, bambino e ragazzo, in Etiopia e in Eritrea.
CAPITOLO PRIMO
Mancavano pochi minuti alle otto di sera, quando Alberto Savalli entrò nell'ufficio del telegrafo della stazione centrale di Milano per il suo turno di notte. Il collega Marchi, prima di smontare, gli consegnò un registro dicendo, come sempre laconico, asciutto: «Nulla di nuovo. È arrivato un dispaccio per te, è sul tavolo dei Morse. A rivederci, ciau».
«Buona notte - rispose Savalli - grazie».
Prese il biglietto e lo lesse a mezza voce: "Presentarsi ore 10 giorno 12 segreteria direzione centrale per comunicazioni personali. Firmato Di Vincenzo capo ufficio telegrafo. Milano 11 Settembre 1912".
Indossò il camice grigio, le mezze maniche nere e cominciò a trascrivere un telegramma che il bel Morse di ottone, lucidissimo, stava trasmettendo, inserì il registratore automatico e portò il dispaccio al capostazione di turno.
Quella notte c'era scarso movimento e riuscì a leggere un pezzo del "Corriere della Sera" che un ferroviere gli aveva lasciato. Arrivò qualche telegramma di servizio ma, fino alle sette di mattino, nulla di importante e poi, via via, gli uffici cominciarono a funzionare con il ritmo del lavoro diurno.
Alle otto, a pochi minuti di distanza l'uno dall'altro, arrivarono i telegrafisti del nuovo turno.
Alberto tornò a casa, si lavò e rasò, spazzolò l'abito, l'unico che aveva, indossò una camicia bianca, si annodò la cravatta ed uscì.
Quando arrivò nell'anticamera dell'ufficio della direzione delle regie poste e telegrafi, mancavano venti minuti alle dieci. L'usciere si fece consegnare il biglietto di convocazione, lo studiò con un certo sussiego, e lo fece accomodare su una panca della vasta sala, arredata con due armadi di noce scura ed un'orologio a pendolo. Era già stato in quell'ufficio diciotto mesi prima, quando si era presentato, appena arrivato a Milano, per avere la sua precisa destinazione. Alle dieci e qualche minuto, fu introdotto dal segretario che, senza alzare lo sguardo dalle sue carte, disse: «Vediamo se il signor Cavaliere può riceverla. Ho avuto precise disposizioni di accompagnarla di persona».
«Grazie, lei è gentile».
«Gentile, gentile, sono gli ordini». Bussò alla porta dell'ufficio del suo superiore e introdusse Savalli nello studio del direttore del compartimento delle Regie Poste di Milano, un uomo sui cinquanta anni che cercava di mascherare la sua pinguedine con un elegante abito nero.
Alberto, impacciato, accennò ad inchino e salutò: «Ossequi, signor cavaliere».
«Lei è Savalli, - rispose questi prendendo le carte che il segretario gli porgeva - quello dell'Affrica. Lei, a suo tempo, ha fatto domanda di trasferimento oltre mare, ebbene, la sua domanda è stata accolta ma non per la Tripolitania, ma per l'Eritrea. Da quando abbiamo conquistato Tripoli, - continuò con aria divertita - si sono accese molte fantasie, ma guardi che di odalische ne abbiamo anche dalle nostre parti, è vero signor segretario? La mandano in Eritrea, posti pericolosi. Ricorda Adua, Dogali?».
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CAPITOLO TREDICESIMO
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
CAPITOLO QUINDICESIMO
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Aris D'Anelli
L'UOMO CHE PARLAVA CON I FILI
editore PLATANO
edizione 1995
pagine 156
formato 17x24
brossura
tempo medio evasione ordine ESAURITO
12.50 €
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