Poteva sposare Adalberto, adattarsi ad una vita opaca, sia pur condotta da regina. Ma Adelaide no. Adelaide non si rassegna.
Appena ventenne, un marito morto in circostanze dubbie e una figlioletta in fasce, Adelaide si ribella. Non ci sta, non si consegna al destino che la storia assegna alle donne della sua epoca e fugge. Fugge disperatamente, cercando di conservare la sua dignità e confidando in un mondo migliore. Un nuovo impero, sacro e romano, un nuovo sposo accanto al quale valga la pena stare.
Una storia d'altri tempi, che pare scritta apposta per i nostri. Dove le donne lottano ancora come Adelaide, per affermare diritti negati ogni giorno.
Morto Lotario, sua moglie Adelaide viene catturata da Berengario, chiusa con la forza in una casa a Pavia e tormentata con molte angherie.
Ma Dio che tutto vede, egli che nulla consente che non abbia timedio e che sempre è misericorde con gli umili, subito libera la regina.
Infatti una sua servetta, avvertita dalla destra di Dio, libera la sua signora con le proprie mani.
Essa scava con le mani la terra sotto la soglia dell'uscio, fa alfine un buco e, di nascosto, libera sé e la sua padrona.
Scappano di là e si nascondono in mezzo ad una palude in modo da non farsi trovare.
Dalla "Cronaca di Novalesa", a cura di Gian Carlo Alessio, Einaudi |
Era notte fonda e la città di Papia dormiva, distesa sul suo pianoro accanto al fiume, raccolta fra le mura. Come spesso accadeva in quelle zone, l'inizio della Quaresima di quell'anno del Signore 951 aveva coinciso con un tempo incerto, bizzoso, sospeso tra le avvisaglie di un acquazzone che non arrivava mai e l'apparizione di un sole pallido che bucava a stento le nebbie del mattino. Verso la fine del periodo penitenziale, però, il clima aveva virato decisamente al bello e un vento frizzante aveva spazzato via le brume, lasciando il cielo terso e un vago sentore di primavera in arrivo.
A oriente la falce della luna inquadrava la porta Palatina, sulla quale spiccava il grande arco romano che la sormontava. Subito oltre le mura si allungava l'ampio complesso del palazzo regio, con le sue costruzioni, i suoi cortili e la vasta distesa incolta che si protendeva verso sud, fino ad incrociare la strada che usciva da san Giovanni e di lì proseguiva verso la corte Ollona.
Il viridatio era sempre stato l'orgoglio della città e il vanto dei suoi regnanti. Fin dal tempo in cui Teodorico aveva iniziato la costruzione del palazzo, ogni cura era stata messa per abbellire il grande giardino e tenere in ordine il bosco. Nel corso degli anni molte generazioni di servi si erano avvicendate nel potare siepi e nel sarchiare aiuole; molte generazioni di giardinieri si erano affaccendate nel trapiantare semi e nell'innestare piante. E molte famiglie, nobili e potenti, avevano lasciato il loro segno all'ombra di quei viali. Così il viridario era cresciuto pian piano, arricchendosi di padiglioni, loggiati, foresterie, peschiere e ospitando i canili con le mute per le cacce del re.
Tutto questo, però, era stato spazzato via di colpo, in un altro giorno di primavera, non molti anni prima. Anche quella volta tirava vento, ma in alto non c'era solo la luna. Il cielo era solcato da lunghe strisce rosse che sibilavano nell'aria tersa e si piantavano con un tonfo sordo sui tetti delle case. Intorno alle mura le urla degli Ungari accompagnavano i cavalli in un galoppo sfrenato, che stringeva in una morsa di fuoco la città e serrava il cuore dei suoi difensori.
Il fuoco aveva attecchito rapidamente, aiutato dal vento. L'incendio più grande era partito proprio dal viridario, annientando in poche ore il lavoro di secoli. Incenerito il bosco, distrutti i padiglioni, consumate le aiuole, le fiamme avevano attaccato il complesso del palazzo. La loro furia si era abbattuta sulle grandi stalle reali, sulle terme, sui magazzini e sulla loggia con il mosaico di Teodorico, da cui il re amministrava la giustizia. Persino la zecca era andata distrutta e si diceva che l'argento, fondendo per il calore, fosse colato giù per le cloache cittadine.
Di argento, comunque, gli abitanti di Papia erano stati costretti a racimolarne molto. E anche ori, stoffe, arazzi, tappeti, vasi preziosi, con cui pagare gli Ungari e scrollarseli di dosso. Quando la torma si era dileguata in cerca di nuove prede, la città era praticamente distrutta. Molte case e quasi tutte le chiese erano ridotte a rovine fumanti. Almeno la metà degli abitanti, compreso il vescovo, era morta nell'assedio. Gli altri vagavano inebetiti fra le rovine, incapaci di darsi pace in mezzo a quel disastro.
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Giancarlo Patrucco
ADELAIDE DI BORGOGNA: UNA DONNA MEDIEVALE
editore SANGIORGIO EDITRICE
edizione 2009
pagine 80
formato 16x24
brossura
tempo medio evasione ordine 2 giorni
10.00 €
8.50 €
ISBN : 978-88-7679-100-0
EAN : 9788876791000
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